Old Dixieland è il film del paesaggio di un’infanzia. Il miraggio estivo di una felicità che continua a ritornare, disperdendosi senza origine né punto. La pianura risuona come una filastrocca: un imbuto di visioni il cui unico codice è la stessa disseminazione che agisce dentro il codice, la medesima diffrazione del paesaggio nell’occhio.
Una panoramica che smonta i codici, spezza gli assiomi. Il significante ritorna su se stesso per abolirsi; senza produzione, senza traccia né ombra. Se nel ricordo sopravvive l’oblìo – un supplemento residuale; un fantasma, un feticcio -, qui al contrario, nell’immagine, il significante si diffrange in una dispersione paragrammatica, para-fonovisiva.
Niente viene taciuto: tutto è consumato fino alla fine. Tutto è ‘visto’.
L’acqua, la terra, le erbe, gli animali sono metafora della continua dissoluzione del valore, dello scambio simbolico del mondo; non sostanze ma antisostanze, antimaterie.
Cadere nel paesaggio di una memoria è cadere eternamente, evitando la singolarità e perdersi in un tempo ‘immaginario’. Un accumulo di tempo infinito per chi guarda.
Dovrebbe allora essere questo il vero mito eracliteo, lucreziano e nietzscheano del ‘divenire’?
La medesima fluttuazione di fase colpisce i segni memoriali, quando perdono il loro statuto referenziale; e ciò si riflette ancora sulle categorie dell’economia cinematografica.
In Old Dixieland, l’immagine ritorna su se stessa nella nube atmosferica del montaggio, trapuntata di spifferi musivi e carambole d’ilinx, a masticare tra le labbra un filo delle leaves of grass; pace fatta con Whitman-Zanzotto, ma solo in qualità di sonnambulismo.
… nel fantasma del presente, via dalla sciarada della storia, dall’inganno della memoria e soprattutto della nostalgia – in primis della nostalgia – l’unico segreto è inoltrarsi…
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Old Dixieland is a childhood landscape’s film. The summer mirage of a happiness returning, dispersing without origin or point.
The lowland resonates like a nursery rhyme: a funnel of visions whose only code is the same dissemination that acts inside the code, the same diffraction of the landscape in the eye.
A panoramic view dismantling the codes, breaking the axioms. The signifier returns to itself to abolish itself; without production, without trace or shadow. If oblivion survives in memory – a residual supplement; a ghost, a fetish -, here on the contrary, in the image, the signifier diffracts in a paragrammatic, para-phonovisual dispersion.
Nothing is silenced: everything is consumed to the end. Everything is ‘seen’.
Water, earth, herbs, animals are a metaphor for the continuous dissolution of value, of the symbolic exchange of the world; not substances but anti-substances, anti-matters.
Falling into the landscape of a memory is falling eternally, avoiding singularity and getting lost in an ‘imaginary’ time.
An accumulation of infinite time for the viewer. Should this then be the true Heraclitean, Lucretian and Nietzschean myth of ‘becoming’?
The same phase fluctuation affects memorial signs, when they lose their referential status; and this is reflected again in the categories of cinematographic economy.
In Old Dixieland, the image returns to itself in the atmospheric cloud of the montage, quilted with mosaic drafts and carambola of ilinx, chewing between the lips a thread of leaves of grass; peace made with Whitman-Zanzotto, but only as sleepwalking.
… in the ghost of the present, away from the charade of history, from the deception of memory and above all of nostalgia – first and foremost nostalgia – the only secret is to enter…
Plot
